Obamako, dia(b)logo africano (parte sesta)

E poi si torna a casa. E il freddo punge sulla faccia che si era ormai abituata al vento secco della savana, e si fa fatica a riordinare subito tutte le idee. Ci sarà tempo, questo è sicuro. Intanto, si parte dalle immagini-ponte che possono collegare il viaggio africano con l’Occidente che vorrebbe (dovrebbe) cambiare. Si parte da quell’Obamako del titolo, nato come un giochino per la divertente assonanza col nome della capitale maliana e in realtà rivelatore di una nuova chiave per leggere le cose della politica, e del mondo. Il Mali è una terra desolata, e lo resterà per molto. Ma in alcuni (ancora pochi) segni si individuava la voglia del change. Ad esempio nelle parole della cugina di Bassirou, il ragazzo che ha vissuto in mezza Africa e che ci ha fatto scoprire un po’ di Bamako: a lei Obama piace un casino, e ha un piccolo sussulto quando scopre che piace tanto anche a noi, con le nostre facce così bianche, così simili a quella di McCain. E Obama si trova stampato sulla pin di un esagitato perdigiorno nella hall dell’albergo di Timbuctù: «Barack is the best man in the world», dice lui, e non serve altro. Poi c’è Abdu, che potrebbe crescere da Obama, aristocratico piccolo tuareg che vive da nomade ma parla con disivoltura inglese e francese, e prima di salutarti in mezzo al deserto ti lascia il suo indirizzo mail. Qualche immagine, e forse non basta. Ma ora tocca a noi, in tutti i sensi. Anche a noi democratici, che dobbiamo farci carico una volta per tutte di questi temi, le rotte degli emigranti e il bisogno di cambiamento (a cominciare dalle piccole cose) in un continente ancora in attesa, di tutto. A noi giovani, che vivremo al tempo della crisi. A noi che magari non abbiamo visto l’Africa, ma sappiamo che cambiare si può. I believe in, diceva qualcuno. E finora non gli è andata male…

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