Obamako, dia(b)logo africano (parte quarta)

Siamo a Timbuctù (con Pippo) da meno di 24 ore, e sembra di essere qui da settimane, avvolti da quel clima molle e un po’ letterario che si incontrava nelle cronache della Legione Straniera. Il piccolo Abdu ci ha accompagnato stamattina per le strade polverose della città, tra la biblioteca che conserva antichi manoscritti arabi e le case degli esploratori (quelli che poi hanno fatto ritorno in patria), fino al Grand Marché, dove ancora oggi arrivano le carovane cariche di sale. Fuori dal mondo, eppure sembra di essere nell’ombelico del mondo (si sa che io e i jovanottismi…). E del resto la donna che ha fondato questo luogo ai confini delle terre conosciute si chiamava Bouctou, che nella lingua della sua tribù molto matriarcale voleva dire “grande ombelico”. Si avvertono le tracce del passato, ma siamo ai tempi della globalizzazione: i fieri tuareg, che hanno l’autorizzazione a montare le loro tende nei cortili delle case di fango, si ritrovano a fare i venditori di chincaglieria con i pochi turisti di passaggio; i bellah, che vengono dall’Africa nera, sono diventati i paria del luogo, e vivono accampati per terra nel cuore della città. Il vento del deserto si mischia alle miserie del Continente più disperato del pianeta, e sembra che da qui sia già passato tutto, e pero’ non sia rimasto niente. Poi ti risvegli all’improvviso: il terrorismo a Mumbai, visto nel piccolo televisore della hall di un albergo di frontiera; un ragazzo del luogo che ti chiede di spedire una lettera a suo padre, che sta a Novara. Fuori e dentro il mondo, e un po’ si vorrebbe stare qui per sempre, e un po’ torna la voglia di casa…

2 Risposte to “Obamako, dia(b)logo africano (parte quarta)”

  1. timbam Says:

    mi piace molto la tua verve africana, quel che dici e come lo dici! ti leggo quasi sempre fino in fondo, ora che sei in Mali, fuori dalle beghe begucce di casa (n)vostra (scusa il carzanismo).continua cosi, io ti seguo.

  2. Dund Says:

    ok, ora so com’è.

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