Obamako, dia(b)logo africano (parte terza)

Arrivati a Timbuctù, che una volta si diceva essere la fine del mondo, e forse un po’ lo è davvero. Sembra un posto uscito dalla fantasia di uno scrittore esotico, come del resto quest’intero pezzo di Mali, e di Africa. A cominciare dai villaggi Dogon scoperti ieri, casette di fango costruite a ridosso di una falesia profonda come un canyon, dove oggi si vive come mille anni fa. Sembrano dei presepi, se non fosse che di notte non c’è neanche un lumucino, solo le stelle che arrivano fino a terra, e si vedono tutte, una ad una. Lasciate le rocce rosse della falesia, arriva la savana piena di ciuchini (e ogni tanto qualche elefante, dicono), e poi solo il deserto. E se il Mali è un concentrato di Africa, Timbuctù lo è anche di più (perdonate la rima). Il Continente Nero si mischia coi tuareg, e lo si vede anche da com’è fatta questa città, un po’ suq arabo e un po’ simile (troppo simile) ai poverissimi posti visti finora. Il tratto comune è una miseria senza fine. Non tornero’ dall’Africa da supereroe, da quello che “solo io ho visto e solo io posso capire”. Ma l’equazione è meno facile di quanto sembri, e la tentazione di dire a tanta gente sempre più razzista su da noi “vedere per credere” è forte. Intanto, per quel che puo’ bastare, è già importante stare collegati, anche da qui (e sempre ft. Pippo, of course). Ci han detto – sarà vero – che dall’albergo dove ci siamo fermati qui è passato Jovanotti. Incroci possibili. Da Marrakech a Timbuctù, l’Africa è un po’ anche questo…

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